Foto di Nadia Del Frate
È la tipologia stessa dello strumento a rendere unico questo Traeri: è infatti raro trovare un organo “da camera” di queste dimensioni, pensato non per un ambiente ecclesiastico, ma per un’accademia musicale ospitata in un palazzo nobiliare, e non quindi destinato all’accompagnamento della liturgia ma, come indicato espressamente nei documenti dell’epoca, all’attività istituzionale dell’Accademia: esami, esercitazioni, discussioni teoriche e prove delle composizioni destinate alla Festa di S. Antonio, patrono dell’Accademia. È assai probabile che lo stesso giovane Mozart, nel periodo del suo addestramento con Padre Martini nell’autunno del 1770, abbia suonato su questo organo.
Lo strumento, inoltre, è rimasto praticamente inalterato nei secoli, subendo pochi interventi che non ne hanno intaccato le caratteristiche principali. Questo aspetto, nel corso degli studi preparatori al restauro, ha portato a scoperte di notevole interesse storico e organologico.
Si tratta di uno strumento di dimensioni abbastanza notevoli rispetto allo spazio per cui era destinato: originariamente era infatti collocato in uno dei tre ambienti, al pian terreno di Palazzo Carrati, che sono poi stati uniti nella seconda metà dell'Ottocento per creare l'odierna Sala Mozart. L’organo restaurato è stato ora collocato nella Sala Rossini, al secondo piano, che, con i suoi alti soffitti splendidamente affrescati, è la più grande stanza di rappresentanza di Palazzo Carrati, quella che oggi meglio si presta alla conservazione di questo delicato manufatto.
Il suono dell’Organo Traeri
Al termine del restauro, un suono dalle caratteristiche inattese, e in particolare il perfetto dimensionamento del volume di suono rispetto all'ambiente, ha stupito gli stessi addetti ai lavori. Infatti, anche con la massima emissione e con l'utilizzo del "ripieno" (cioè attivando tutti i registri contemporaneamente), il suono risulta gradevole all'orecchio e mai eccessivo o compresso.
István Bátori suona l'Organo Traeri (21 novembre 2020)
I "pesi" originali dei mantici gettano nuova luce sul suono degli organi del Seicento
I pesi di pietra che azionano i mantici, con cui veniva immessa manualmente l'aria nelle canne, portano incisa la data di costruzione 1673, fatto assai curioso e raro. Si tratta quindi dei pesi originali predisposti dal costruttore. Ebbene, il peso esercitato da queste pietre è superiore a quanto gli studiosi si sarebbero aspettati secondo le precedenti conoscenze. E siccome il peso influisce direttamente sulla forza dell'emissione e quindi sulla qualità del suono, questo aspetto getta una luce assolutamente nuova sul tipo di suono originario di questi strumenti. Si tratta perciò di una scoperta molto significativa per l'organologia storica. Il restauro ha quindi restituito la voce originale dello strumento, come poteva essere ascoltata dal fondatore e dai primi accademici. Un suono di grandissima qualità, una “pronuncia” (come viene detto il timbro sonoro delle canne) brillante e decisa, definita dal maestro Tagliavini "gagliarda".
Ripristino dell’accordatura e dell’intonazione originari
Un altro importante recupero riguarda il temperamento dell'accordatura e l'intonazione (ovvero il diapason) originari dello strumento. Grazie all’eccezionale stato di conservazione, gli studiosi hanno potuto condurre una precisa analisi delle canne e dalla stratificazione ben evidente degli interventi di accordatura avvenuti nel tempo. La Commissione, dopo un’approfondita valutazione, ha deciso di ripristinare l’accordatura impostata nel primo intervento di messa a punto dell’organo, effettuato dal figlio del costruttore, Francesco Traeri, nel 1721. Si tratta di un temperamento mesotonico modificato, molto raffinato, la cui caratteristica principale, rispetto al temperamento equabile a cui siamo abituati (quello del pianoforte moderno, per esempio) è la differenza del suono degli stessi intervalli tra una tonalità e l’altra. Questo aspetto aveva una funzione espressiva e veniva pienamente sfruttato dai compositori dell’epoca, che nelle modulazioni da una tonalità all’altra all’interno di un brano, ottenevano sonorità più morbide o più aspre, in base alla maggiore consonanza o dissonanza di uno stesso accordo nelle diverse tonalità. Ecco che quindi le tonalità più utilizzate (Do, Fa, Sol, Re maggiore) sono ben rotonde ed eufoniche, mentre altre come La bemolle, Mi bemolle, Fa diesis maggiore, utilizzate in momenti “di passaggio”, suonano aspre, e i loro suoni, collocati sui tasti neri (detti appunto “cromatici”), servivano per particolari effetti espressivi.
Una storia di oltre tre secoli
Nel 1673, a sette anni dalla fondazione, il creatore dell’Accademia conte Vincenzo Maria Carrati dotò l’istituzione di «un organo di piedi sette musicali con 8 Registri», affidandone la costruzione a Carlo Traeri, apprezzato organaro di origine bresciana ma attivo a Bologna. Lo strumento serviva, assieme a vari altri pregiati strumenti – tuttora conservati in Accademia – per gli «esercizi musicali» settimanali nell’attuale Sala Mozart, durante i quali gli accademici si riunivano in sodalizio affinché questo «havesse filo et unione da non distruirsi»; per stemma avevano scelto proprio “un organo, con sopra un mo[t]to qual dice Unitate Melos” – lo stesso che accanto a quello dei Carrati campeggia sulla cimasa dell’organo Traeri. Lo strumento è sempre stato conservato nella «residenza» in quella sala ove lo stesso W. A. Mozart, acclamato accademico nel 1770, poté sicuramente ammirarlo se non forse suonarlo. Durante la Seconda guerra mondiale per sicurezza venne trasferito temporaneamente presso il Convento dell’Osservanza; in anni recenti (1984) per meglio garantirne la conservazione, dalla Sala Mozart è stato trasferito al secondo piano, fra le collezioni musicali. Esso ha subito pochi ma significativi adattamenti in epoche successive: nel 1721 il figlio del Traeri, Francesco, ne abbassò il corista di circa mezzo tono, nel 1741 il nipote Giuseppe ne curò l’estrazione dalla nicchia murale in cui era parzialmente incassato, dotandolo di basamento affinché potesse essere collocato isolato nella sala della residenza. Il più recente degli interventi, nel 1984, si deve alla generosità degli Accademici Arrigo Luca conte di Windegg e Pietro Luca, in memoria della madre.
Ragioni e modi di un restauro “scientifico” ed artistico
Il pregio dell’organo Traeri dell’Accademia Filarmonica risiede dunque nello strumento in sé, ma anche nella sua intima connessione con le attività più rappresentative dell’istituzione, ed inoltre nel fatto che le sue caratteristiche sono rimaste sostanzialmente immutate nel corso dei secoli. Tali circostanze ne fanno un unicum a livello internazionale, e hanno suggerito la necessità di un suo restauro integrale e di un suo pieno recupero alla vita musicale, oltreché di un accurato studio del suo contesto storico.
Questa istanza è stata pienamente accolta dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, che ha deciso di finanziare interamente il progetto, in tutte le sue fasi.
L’intero progetto ha rappresentato una rara occasione di lavoro in équipe per un rigoroso studio interdisciplinare, grazie alle competenze specifiche dell’organaro Marco Fratti di Campogalliano (Mo), della dott.ssa Carla Martini, del Dipartimento SMETEC dell’Università degli Studi di Bologna, nel campo dei metalli negli organi e di Licia Tasini (Laboratorio di “Restauro e Conservazione Opere d’Arte” di Pieve di Cento), per la gli aspetti decorativi della cassa lignea di contenimento.
Presentato inizialmente nel corso di una Giornata di studi sul patrimonio delle Accademia musicali storiche italiane organizzato dall’Accademia Filarmonica (2005), e successivamente approfondito nell’ambito di una ricerca ad ampio raggio coinvolgente anche gli altri organi Traeri, il progetto è stato formalizzato definitivamente nel 2006. Nel biennio successivo è stata condotto uno studio preliminare, con un’ulteriore ricerca documentaria sulle vicende dello strumento in Accademia e sulla tradizione organaria emiliana del ‘600 e del primo ‘700. Si sono potute così confermare ed approfondire notizie già note ed ipotesi avanzate in passato.
Il restauro vero e proprio, sotto la direzione del maestro Luigi Ferdinando Tagliavini, accademico filarmonico ed Ispettore Onorario per gli Organi Antichi presso la Soprintendenza ai Beni Artistici e Demoantropologici, si è svolto in varie fasi. Dapprima è avvenuto lo smontaggio e il trasferimento dello strumento presso il laboratorio di Marco Fratti, onde consentirne la documentazione tecnica, con i rilievi fotografici, il riordino e la catalogazione della situazione de facto delle parti foniche.
Contemporaneamente sono state condotte le analisi metallurgiche, che hanno permesso di acquisire importanti informazioni circa la composizione delle leghe utilizzate dal costruttore ed individuare con sicurezza le poche sostituzioni effettuate all’inizio del sec. XX dall’organaro Adriano Verati.
Anche il restauro della cassa lignea e delle sue decorazioni pittoriche confermava come lo strumento fosse stato sommariamente ridipinto nel corso del sec. XIX, e rimetteva in luce l’originaria suggestiva colorazione e le dorature.
Tutto il lavoro sulla parte fonica è stato condotto facendo uso di tecniche e materiali che consentono la massima reversibilità e leggibilità degli interventi, al fine di restituire l'opera nelle migliori condizioni di efficienza ed integrità possibili. Applicando i risultati delle ricerche, con simulazioni computerizzate e la ricostruzione della disposizione del somiere, è stato possibile rideterminare l’originaria lunghezza delle canne e la loro disposizione, nonché il temperamento originale “mesotonico”.
L’accordatura finale è stata effettuata “in tondo” nella migliore delle antiche tradizioni. Il restauro ha conservato le più importanti stratificazioni storiche ma anche l’originaria pressione dell’aria ricavabile dai pesi dei mantici (marcati con l’anno 1673 dallo stesso Carlo Traeri), e quindi l’autentica “pronuncia” espressiva dello strumento.
L’organo rappresenta ora una preziosa testimonianza di tecnologia e sonorità inedite, tali da amplificarne ulteriormente il valore storico ed artistico per l’Accademia e per l’intera comunità internazionale.
Scheda tecnica
A cura di Marco Fratti
Organo costruito da Carlo Traeri per l’Accademia Filarmonica nel 1673. Cartiglio originale inserito nella meccanica:
“CAROLUS TRHAERIUS A
BRIXIA FECIT BONONIAE ANNO
DOMINI M.DC.LXXIII”
Cassa lignea in pioppo e abete, suddivisa in base e alzata, con decorazione policroma e dorature a foglia
Prospetto di 15 canne, suddiviso in tre campate da 5 canne ciascuna disposte a cuspide, con labbro superiore a mitria e bocche allineate, appartenenti al Flauto in Ottava. La canna maggiore corrisponde all’attuale Re1 (in origine Do1)
Tastiera di 45 tasti (Do1-Do5) con prima ottava corta. Tasti diatonici in bosso e cromatici in pero tinto di nero
Pedaliera “a leggio” di 14 pedali (Do1-Fa2) costantemente unita alla tastiera
Registri azionabili da manette ad incastro
Disposizione fonica:
- Principale (da Do1 a La1 in legno di larice, le rimanenti in piombo)
- Ottava (Do1 in legno)
- Quintadecima (ritornello su Re4)
- Decimanona (ritornello su Fa#4)
- Vigesimaseconda (ritornello su Do#4)
- Vigesimasesta (ritornello su Fa#3 e Fa#4)
- Flauto in Duodecima
- Flauto in Ottava (Do1 in comune con l’Ottava, da Re1 a Sol2 in stagno in facciata, le rimanenti in piombo)
Canne: 360, di cui 15 in stagno sulla facciata, 6 in legno interne, rimanenti in lega di stagno e piombo;
Accessori: tiratutti
Somiere “a tiro”
Mantici: due a cuneo collocati nel basamento e azionabili mediante corde e carrucole
Diapason: 442,3 a 15° C.
Temperamento: mesotonico modificato
I Traeri, una famiglia di organari
La famiglia Traeri (detta anche Trieri, Trajer, Traher) è una delle più rilevanti dinastie organarie che operano tra il XVII e il XVIII secolo principalmente in territorio emiliano. Il capostipite Carlo (inizi 1600-1689), figlio di un intagliatore, apprende l’arte paterna e, presso gli ultimi rappresentanti degli Antegnati, antica famiglia di organari bresciani, quella organaria. Decide di trasferirsi a Bologna, venendo a contatto con i lavori dei Colonna, celebri organari bolognesi. La fama organaria della città d’origine però accompagnerà sempre i componenti della famiglia, sì che verranno spesso definiti Bresciani e in gergo emiliano Bressani o Bersani. L’attività di Carlo inizia attorno al 1655. Suoi strumenti significativi rimasti quasi intatti sono quelli della Pieve antica di Quinzano d’Oglio del 1667, dell’Accademia Filarmonica e quello in cornu Evangelii della chiesa di S. Gregorio di Bologna, entrambi del 1673. Ebbe due figli, Giovanni Francesco e Giovanni Domenico entrambi organari.
Gianfrancesco inizia l’attività nel 1687, costruendo uno strumento al Duomo di Asti, uno dei pochi casi fuori dal territorio emiliano; nel 1689 è a S.M. Regina Coeli a Bologna. Giandomenico appare invece nel 1690, a Formigine. Grazie alla loro bravura, in pochi anni l’attività diviene densissima in Bologna e dintorni, e in tutta l’Emilia-Romagna. Oltre alla costruzione di numerosi organi nuovi saranno, a turno o insieme, impegnati in importanti lavori, ad esempio all’organo venerando (1470) e monumentale (una facciata di 24 piedi) della basilica di S. Petronio di Bologna. Nel 1691 sono a Castelbolognese, nel 1697 a S. Giovanni in Persiceto; nel 1700 ad Amola di Piano, nel 1714 a S. Carlo di Modena, nel 1717 a S. Francesco in Bologna, Camurana (MO) nel 1723, Burana ferrarese nel 1726, Fiorenzuola d’Arda (PC) nel 1733, ancora a Modena in S.M. delle Grazie nel 1734.
I tre nipoti, Ugo Annibale e Giuseppe figli di Gianfrancesco e Agostino figlio di Giandomenico seguono tutti l’arte di famiglia. Agostino si fregerà del titolo di “organaro ducale” lavorando fino alla fine del secolo, mentre i due cugini, dopo la collaborazione con il padre, proseguono l’attività sia insieme sia da soli.
I primi organi di Carlo e Giovanni Francesco risentono evidentemente dell’influsso della scuola bresciana rinascimentale, sia nell’estetica delle facciate sia nelle sonorità, con registri di ripieno, uno o due flauti e la voce umana basati sulle misure classiche di quella scuola. I successivi accolgono le soluzioni barocche praticate dai Colonna e dai Bonatti e Benedetti, loro contemporanei: molti Positivi, somiere a tiro, quadri fonici con uno o due Cornetti a fila singola o raddoppiata. Grazie all’esperienza di ebanisti e intagliatori realizzavano spesso anche le casse e l’apparato decorativo. Ugo Annibale e Domenico furono anche cembalari. Alcuni esemplari sopravvivono in collezioni pubbliche e private a Bologna, Milano e in Inghilterra. Un cembalo di Ugo pare fosse in possesso di G.F. Haendel.